Tradizioni dialetto e curiosità popolari ortane
Un itinerario dentro Orte

Un viaggio nella memoria e nelle tradizioni linguistiche di Orte.Scopri come stiamo preservando e valorizzando il dialetto locale attraverso la ricerca, la tecnologia e il coinvolgimento della comunità.

📜 Un patrimonio da preservare

Il progetto Dialetto Ortano nasce per raccogliere, documentare e promuovere il dialetto e la cultura locale di Orte. Grazie al lavoro con studenti, esperti e la comunità, abbiamo creato un archivio digitale, un percorso culturale interattivo e nuove pubblicazioni sul tema.✨ I nostri obiettivi:
✔ Conservare e promuovere il dialetto ortano
✔ Creare un percorso culturale con tappe fisiche e digitali
✔ Stimolare il dialogo intergenerazionale

📢 Conferenza & Evento Finale

Una panoramica dell'evento in cui esperti, studiosi e cittadini hanno condiviso il lavoro di ricerca svolto, illustrando il valore storico e culturale del progetto.

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Sei un ricercatore, un appassionato di cultura o vuoi semplicemente saperne di più? Contattaci per collaborazioni, suggerimenti o per condividere le tue storie sul dialetto ortano!
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Chi siamo 👥

Il progetto Dialetto Ortano nasce dall’impegno di Lighthouse Languages, in collaborazione con il Comune di Orte e con il supporto di esperti nel campo della linguistica, della storia locale e della cultura del territorio.L'obiettivo è preservare, documentare e promuovere il dialetto ortano, un patrimonio immateriale che rappresenta l'identità e la storia della nostra comunità.✨ Cosa facciamo:
✔ Ricerca e documentazione → Creazione di un archivio digitale con testimonianze, documenti storici e studi linguistici.
✔ Percorso culturale interattivo → Un itinerario di 11 tappe nei luoghi simbolo di Orte, arricchito da contenuti multimediali accessibili tramite QR code.
✔ Coinvolgimento della comunità → Attività e laboratori con studenti, conferenze con studiosi e cittadini per tramandare la conoscenza del dialetto alle nuove generazioni.

Tappa 1: I’ Mmonumendo

La SS. Trinità
La chiesetta che si vede sul colle a destra guardando il monumento è dedicata alla Madonna della SS. Trinità, usata da eremiti fra la fine del ‘300 e i primi anni del ‘400. Ospitò san Bernardino che dimorò in una delle sue grotte nel 1426. Simon Feo, poeta ortano del XVI secolo, lo attesta nello scritto “Ad amicum”. Gli ortani ancora oggi guardando la chiesetta la chiamano “La Madonna che guarda Orte”.

La transumanza
L’importanza della transumanza a Orte è significativa per la posizione strategica della confluenza del Nera con il Tevere, punto di riferimento cruciale già in epoca etrusca. Durante il passaggio delle greggi si creava un mercato dove conciatori, canapai, facòcchi (carradori), falegnami facevano affari. Le fiere erano il momento di maggiore risonanza.

Il dialetto del 1300
In un manoscritto particolarmente significativo del XIV secolo ritrovato nell’archivio comunale di Orte, sono state rilevate parole ancora presenti nel dialetto ortano o recentemente scomparse. Il manoscritto, “Entrate e uscite” (Spese e guadagni) di un possidente di Orte di nome Bartolomeo è preziosissimo per l’evoluzione e lo studio del dialetto del nostro paese e nell’Italia mediana.

Salenno vèrzo Orte (Salendo verso Orte)
Nel salire verso Orte piccole curiosità e storie quotidiane ci accompagnano nei ricordi come l’invenzione delle macchine irroratrici fatta da Leonildo Crocoli o il vissuto degli anni ’50 del novecento o ancora la famosa pittrice Corinna Ceccarelli di cui un quadro è stato a lungo esposto ai Musei Vaticani dal titolo “La messa beat”.

LA MADONNA DELLA SS. TRINITÀLa chiesetta che si vede sul colle è dedicata alla Madonna della Trinità, usata da eremiti fra la fine del ‘300 e i primi anni del ‘400. Ospitò san Bernardino che dimorò in una delle sue grotte nel 1426. Simon Feo, poeta ortano del XVI secolo, lo attesta nello scritto “Ad amicum”.
Gli ortani ancora oggi guardando la chiesetta la chiamano “La Madonna che guarda Orte”.
“L’esplosione di un treno carico di munizioni, nell’autunno del 1943 aveva fatto crollare buona parte della rupe, dove era scavato l’annesso romitorio di san Bernardino: i massi avevano sommerso la chiesa rimasta miracolosamente intatta. Due ortani, che hanno il diritto alla riconoscenza imperitura di tutti i cittadini, Pietro Martini e Giovanni Nasetti, con fatica paziente e generosa, l’hanno liberata dalle macerie e hanno sistemato la vasta zona d’intorno.”
In “Elenco delle famiglie che costituiscono la popolazione di Orte, estratto degli stati delle anime del 1864” si rileva che presso la SS. Trinità era presente un frate eremita.

LA TRANSUMANZALa transumanza a OrtePiù avanti, nei pressi di Orte, le greggi si dividevano.
Quelle dirette verso Roma proseguivano in direzione sud lungo la Flaminia. Alcune svernavano nei pressi di Borghetto Flaminio, Gallese e Civita Castellana mentre altre raggiungevano la Cassia nei pressi di Campagnano e, da qui, si diramavano verso Bracciano, Cerveteri e il litorale a nord di Roma.
Le greggi dirette verso la pianura di Orvieto si diramavano in direzione di Amelia, Giove, Attigliano a Sipicciano.
Quelle dirette verso la Maremma Viterbese, invece, tagliavano verso ovest passando per Bassano in Teverina, Vitorchiano, Bagnaia, Viterbo, Tuscania e, da qui, alcune proseguivano in direzione di Vetralla fino a raggiungere le zone di Civitavecchia.
Di grande interesse culturale era anche il tratturo che attraversava Castel Bagnolo, usato non solo per la transumanza, la cui stazione in seguito divenne punto di riferimento per il carico e scarico di merci.
Il borgo arroccato di Orte, grazie alla sua ubicazione, già in epoca etrusca risultava essere un centro di cruciale importanza che determinò una costante frequentazione del territorio.
Punto d’incontro delle vie Amerina (proveniente da Gallese) e Tiberina (collegante i vari approdi fluviali da Roma a Orte) situato poco lontano dalla confluenza del Tevere con il Nera, importante direttrice di comunicazione con l’Umbria.
Qui sorgeva la città portuale di Seripola i cui ritrovamenti archeologici stanno a dimostrare che nel periodo che va dal V al I sec. a. C. il territorio ortano era centro di intensi traffici commerciali.
Poco distante dal porto di Seripola si trovano i resti del Ponte di Augusto, o Pontaccio, distrutto dai Borgia intorno al 1520 al fine di proteggere le rocche di Civita Castellana e Nepi, costringendo in seguito la popolazione ad avventurosi guadi su precarie imbarcazioni; resti che consistono in alcune parti delle strutture di cinque dei sei piloni originali, a pianta esagonale.
Il collegamento tra il ponte sul Tevere ed il centro urbano era assicurato dalla Porta di San Cesareo e, una volta attraversato, si discendeva dalla parte opposta, lungo la Via della Rocca.
Nella seconda metà dell’800 i transumanti raggiungevano Bassano in Teverina grazie alla Via di Lucignano, percorrendo un tragitto pari a circa 4.000 passi.
Il transito di un centro abitato da parte delle carovane che accompagnavano le greggi nella transumanza era un evento che portava un notevole risvolto economico e sociale.
In queste occasioni si creava una sorta di mercato dove i pastori avevano la possibilità di vendere il formaggio e la ricotta mentre conciatori di pelli, cardatori di lana, facocchi, maniscalchi e falegnami facevano affari prestando la loro opera.
Di maggior volume e risonanza erano le Fiere, giganteschi mercati che di solito si svolgevano in città o borghi conosciuti come centro di smistamento economico e commerciale.
Le fiere risalgono prevalentemente al periodo medioevale e di antica istituzione è la Fiera dei Campanelli di Orte, solennizzata da papa Bonifacio IX nel 1396 quando questi concesse l’indulgenza a tutti coloro che si recavano in pellegrinaggio a Orte in devozione a Sant’Egidio.
Comprendeva una grande fiera di merci che si svolgeva nel centro urbano mentre al di là del Tevere si teneva quella del bestiame, bandita fino ai territori di Perugia e Norcia.
I percorsi seguiti dai pastori erano consuetudinari, dettati dalla natura del territorio e frutto degli accordi tra conduttori e agricoltori; inoltre percorrere sempre le stesse strade facilitava l’orientamento degli animali negli anni.
Gli spostamenti delle greggi erano scanditi dalle due feste dedicate a San Michele Arcangelo: la stagione del pascolo invernale iniziava con la festività del 29 settembre e terminava l’8 maggio, giorno dell’apparizione dell’Arcangelo Michele nel Gargano. La stagione del pascolo estivo comprendeva il rimanente periodo, ossia dalla festa di San Michele di maggio a quella del 29 settembre.
Le soste si effettuavano in luoghi prestabiliti noti come riposi, dove le masserie potevano sostare fino a tre giorni e tre notti consecutive, dotati di fontanili indispensabili per l’abbeveraggio delle greggi e di ricoveri per provvedere all’assistenza sia spirituale che materiale dei pastori anche se, spesso, questi trovavano assistenza anche presso le famiglie contadine che abitavano le case rurali sparse nel territorio, ricevendo cibo e un giaciglio in cambio di latte e prodotti caseari.
Una masseria media, di 2.000-3.000 pecore, disponeva di 10-15 addetti organizzati in modo autonomo e gerarchico la cui conduzione era affidata al vergaro, figura indiscussa e predominante all’interno dell’azienda.
La transumanza in larga scala è terminata intorno agli anni 60 del secolo scorso quando, in seguito alla costituzione dell’Ente Maremma nel 1951, vennero espropriati e ridistribuiti i latifondi a piccoli proprietari coltivatori diretti.
Oggi è pressoché estinta nella sua forma originaria ed i pochissimi pastori che affrontano sporadici spostamenti da un pascolo all’altro si avvalgono dell’utilizzo di camion.
Ciò anche per ovviare ai molteplici ostacoli burocratici legati proprio allo spostamento degli animali e al rischio di farli transitare attraverso spazi pubblici, territori comunali diversi e con diverse regole, a volte anche su tratti stradali obbligati, dal momento che cementificazione, edificazione e trasformazione dell’agricoltura stessa, hanno interrotto o cancellato gli antichi tracciati dei pastori.

INTERVISTA SUL PASSAGGIO DEI TRANSUMANTI A ORTE
I: intervistatore
E: Ermete Bonifazi
I: Ti ricordi quando passavano i transumanti a Orte? Che succedeva?
E: Avanti annava bbùttero co’ ccavallo, che faceva strada, dièdro veniva tutto ggrègge co’ i’ccòso… i’ vvergaro che era quello che commannava tutti l’operai e che stava llì e guardava tutto ggrègge ‘nzómma quello dicémo èra i’ ccapo operaio via... E passavono pe’ quésta strada. Annavono vèrzo Bassanèllo, vèrzo Viterbo, che ppòi scennévono, venìvono de qqui, passavono pe’ Orte, dicémo dall’ Abbruzzo all’alta ternana, eh ssi da Peruggia, tutte le mondagne quélle. Aggià comingiavono a scénne tutti perchè passavono a bbranchi. A la nòtte capace che passavono tre quattro branchi mica pòchi… Come minimo mille, milleccinquecèndo, dumila pègore…venivono e sembrava ‘n’ artijjeria de sordati perchè dièdro venivono tutte le carròzze che portaono la magnifica, e ssi tutto pe’ magnà: ppane, tutto quello che servìa, pasta, perché loro ‘gni vòrda che passaono se fermaono, ‘gni anno passavono due tre bbranchi se fermaono perché c’avevamo ffòsso. Allora le pègore c’avevono bbisogno de bbéve, le pègore, mmuli, ccavalli. Cc’avevono de tutto, j’affittavamo un èttaro ddue de tèrra dóve c’èra la còsa pe’ andà da ffòsso, pe’ falli bbéve. Se fermavono de llì, facevono la céna, facevono fformaggio e dde nòtte ripartivono. Ce stavono un giórno massimo ddui, ammesso che io c’éo parecchi’ èrba, allora approfittaono a falli riposà ‘n giorno de ppiù, pagavono de ppiù perchè ce pagaono, stéono ‘n giórno de ppiù, partivono i’ggiórno dòppo. Se riposavono anghe lóro. Un pòchi quanno stavono vicino a Bbomarzo, nnavono ggiù, nnavono pe’ i’ ppiani de Orvièto, perchè anghe lì cc’èrono i bbiadajji l’èrba che mettevono ccontadini, perché mettevono ll’èrba pe’ quésti pastori, che ce pijjavono zzòrdi, poi a aprile quésta tèrra la aravono e cce mettévono ttabbacco. Allóra loro annavono qui a settembre ottobre; aprile dovevono riannà vvia e ripassavono. E ccosì questa faccènna de pègora bicia pègora bicia… nói cóme se dice ce mettevamo capace su ‘na strada che sópre c’era ‘na montagnòla, capace du’ tre ragazzétti.
I: In che zona stavi?
E: Stavo a san Giovanni a la strada de Bbassanèllo, de qui sópre Żżèlli.
I: Si fermavano anche in altre parti a Orte?
E: Do’ jje capitava, ‘gni appezzamendo de terréno potéva daje de sostà ‘na notte o ddue, come adèsso presémbio llì da nói, l’unico casale appéna usciti su da Żżèlli eravamo nói, cc’avevamo combinazione del fosso e annava bbène dòppo se potévono fermà anghe più ssu, dicémo su vèrzo la Cava de la bbréccia, da ccasale de Parrini. Pure de llì cc’èra ccasale che c’avéva l’acqua, oppure dicémo da la strada de Bbassano, su ddi sópre a Ccimitero, quélli do’ cc’avevono ll’acqua se fermavono. A Bbassano pòi fino a quanno nun trovavono ll’acqua, a Bbassano nun c’era tanda e dovévono arrivà vèrzo Bbomarzo, llà ffòsso de Bbomarzo, llì cc’era la macchia, capace se fermavono déndro la macchia solo pe’ pòche ore, solo pe’ falle bbéve e ripartivono, perchè la necessità era quélla de falle bbeve. Magnà si nun c’èra pe’ un giórno èra uguale, ma i’ bbée era indispenzabbile. Qui nun la facevamo la tranzumanza perchè nun c’avevamo tande pègore e ppòi èra callo, stavamo bbène. ‘Gni casale capace che cc’aveva dieci quinnnici pègore.
I: Dove dormivano?
E: Eh do’ dormivono… se stavono vicino casa presémbio che je davamo ‘n appezzamendo vicino casa, dormivono déndro la magnatóra de’ bbòi, oppure déndro a’ ccappannóne dóve stéva ariméssa l’attrezzatura e sse nnò dormìvono sótto a’ ccarrétto. Quanno pioéa, grandinaa… steano llà sotto poracci, facevono ‘n fògo che mettéa paura, ‘gni pòco ‘na scallata, co’ ll’ingerate, le fasce, ‘nzomma campavono così. A la madìna dovevono fà fformaggio sótto all’acqua, mettévono sèmbre quarche còsa ‘na tendina. Dormivono déndro la magnatora e stavono come papi, perchè èrono calle le magnatore. E ‘nvece se stavono da ‘n gasale che nun c’avevono ppòsto pe’ ddajje, dormivono sotto a’ ccarrétti. Allóra mica c’èra nnailo, i’ccarrétti c’avévono quélli carrétti lunghi, perchè cc’avévono da caricà tanda ròbba nò? C’avévono da caricà lendìcchie, ccéci, pasta, tutto perchè finghè nun arrivavono ne le zzòne dicemo de Tarquinia, La Tolfa, Mondalto, tutte le zzòne quélle, Tuscania. Ha visto quanno passi pe’ quélle tenute…che nun c’è un casale… gnènde, è tutta tenuta libbera, llì venivono piantati ‘m pòchi a ggrano, ‘m pòchi a erbajj, che ppòi dóve dicémo che ce stavono le żżòne più umide ce piandavono i’ ttabbacco, quell’andre venivono messe a èrba o a ggrano. Però i’ bbiadajji li facevono perchè ce prendevono li sòrdi. I bbiadajj li seminavono dicémo i’ pproprietari de’ tterreni, li seminavono pe’ vvénneli a quésti pastori. Dde llì se tratta che pijjavono cinguanda, sessanda èttari, perciò je ce volevano le żżòne come dicémo, che èrono ambie e calle pe’ vvia dde’ mmare. Allora ‘nnavono tutti llà e a aprile ripartivono. Ècco la vida che facévono. Tutto qua.
Parlanno de tranzumanza aggià dai primi de’ ‘900 dicémo che dai paesi dóve avvenivono le traverzate de ‘ste mandrie, al passaggio nun venivono accòlte tando bbène, perchè èrono portatori di mósche e sporcavono le strade, e dai cambi vicini endravono quésti animali e distruggevono tutto. ‘Nvece èrono bbène accòlti dai proprietari, che affittavono pascoli e abbeveratori, che venivono poi pagati con formaggio e rigòtta. Al passaggio di quéste mandrie, la ggènde venìa svejjata da campani, fischi e schiamazzi, che facevono i’ ppastori pe’ richiamà l’animali che cercavono de allondanasse da la strada, per mangià quarcòsa. A volte gruppetti de ragazzi, a’ ppassaggio di quésti pastori, si nascondevano e qui a Orte veniva cantata la canzoncina della pègora bìcia:
“Tu pecoraro dalla pecora bìcia chjappa tu mójje pe’ la camicia, falla ballà falla sardà, quésta è la vita de’ ppecorà.”, creanno l’ira di quelli pòri pastori.
I’ pprimo che arrivava su’ ppòsto stabilito pe’ ripòso era sèmbre i’ bbuttero, dièdro carrétti e cariòli a quattro ròte, pièna de attrezzature, acqua e viveri, dièdro seguiva i’ggrègge co’ pastóri e i’vvergaro, che viggilava la mandria e i’ppastóri.
Quéste mandrie subbivono anghe dei furti, durande il viaggio, c’èrono ladrùngoli che se appostavono dièdro le sièpi o sótto i’ ponticèlli e a’ ppassare de la mandria, cercavono de catturà quarche ccapo. Pròpio qui a Orte è capitato che ‘nvece di afferrare una pègora ha tirato déndro ‘n gane, così i’ ppòro ladrùngolo, ha passato prima gguai co’ ccane e ppòi co’ i’ ppastori.
TRADUZIONE DELL’INTERVISTA
(La traduzione effettuata è sintetica, tralasciando le ripetizioni e alcuni passaggi marginali).
I: Ti ricordi quando passavano i transumanti a Orte? Che succedeva?
E: Avanti andava il buttero con il cavallo che faceva strada, dietro veniva tutto il gregge con il vergaro il quale comandava gli operai. E passavano per questa strada, andavano verso Vasanello, verso Viterbo e poi scendevano passando qui a Orte, dall’Abruzzo, dall’alta ternana, da Perugia da quelle montagne. Alla notte passavano anche tre quattro branchi, non pochi: mille millecinquecento, duemila pecore, sembrava un’artiglieria di soldati perché dietro venivano tutte le carrozze che portavano il cibo, tutto ciò che serviva, pane, pasta; perché loro ogni volta che passavano si fermavano, ogni anno passavano due o tre branchi, si fermavano perché c’era il fosso. Le pecore, i muli e i cavalli avevano bisogno di bere. Avevano tutto, affittavamo loro uno o due ettari di terra, dove c’era il passaggio per andare al fosso e far bere le bestie. Si fermavano, preparavano la cena, il formaggio e di notte ripartivano. Ci stavano un giorno, massimo due, io avevo il terreno con molta erba, allora approfittavano per far riposare le bestie un giorno di più, a pagamento, riposandosi anche loro. Alcuni quando stavano vicino a Bomarzo, andavano giù fino ai piani di Orvieto perché anche lì c’erano i campi di avena. La mettevano i contadini per loro prendendo dei soldi, poi ad aprile la stessa terra veniva di nuovo arata e ci piantavano il tabacco. Loro passavano qui a settembre/ottobre e ripassavano ad aprile.
La frasetta della pecora Bigia, la dicevamo noi ai pastori ma ci mettevamo sopra a delle piccole alture, due o tre ragazzetti la canticchiavamo a loro.
I: In che zona stavi?
E: In località san Giovanni, sulla strada verso Vasanello.
I: Si fermavano anche in altre parti a Orte?
E: Dove capitava, ogni appezzamento di terreno poteva dare loro la sosta per una notte o due, appena usciti da Zelli, era il nostro casale che per combinazione aveva il fosso vicino, anche verso la Cava della Breccia, dal casale di Parrini. Anche lì c’era questo casale che aveva l’acqua, oppure verso la strada di Bassano, dopo il cimitero ma dove c’era l’acqua, al fosso di Bomarzo, può darsi che si fermavano nei boschi ma per poche ore solo per far bere le bestie. Poi ripartivano perché la necessità era quella di farle bere. Se non c’era da mangiare per un giorno, non era importante, ma il bere era indispensabile. Nelle nostre zone non si faceva la transumanza perché non avevamo molte pecore, poi era caldo e si stava bene. Ogni casale poteva avere dieci quindici pecore.
I: Dove dormivano?
E: Dormivano vicino casa, davamo loro un appezzamento di terreno, dormivano dentro la mangiatoia dei buoi oppure dentro al capannone dove erano gli attrezzi, dormivano anche sotto i carretti. Quando pioveva o grandinava stavano lì sotto poveracci, facevano un fuoco che metteva paura, ogni poco si scaldavano, poi si coprivano con le incerate e le fasce. Alla mattina se pioveva facevano il formaggio sotto la pioggia.
Dormivano dentro le mangiatoie e stavano caldi. Se invece stavano in un casale dove non avevano posti riparati, dormivano sotto i carretti, allora non c’era il nailon, avevano i carretti lunghi perché ci dovevano caricare tanta roba. Dovevano caricare lenticchie, ceci, pasta, tutto insomma fino a quando non arrivavano nelle zone di Tarquinia, Tolfa, Montalto e Tuscania. Quando passi per le tenute dove non c’è un casale, quelle tenute venivano piantate un poco a grano, un poco a erba. Però facevano anche i campi di avena perché ci prendevano i soldi, li seminavano i proprietari di questi terreni per venderli ai pastori. Prendevano cinquanta, sessanta ettari e le occorrevano zone ampie e calde per via del mare. Allora andavano tutti in quelle zone e ad aprile ripartivano. Ecco la vita che facevano, tutta qua. Già dai primi del ‘900 queste mandrie che passavano, non venivano accolte tanto bene, perché erano portatori di mosche e distruggevano le strade e nei campi vicini dove entravano questi animali distruggevano tutto. Invece erano ben accolti dai proprietari i quali affittavano pascoli e abbeveratoi venendo poi pagati con formaggio e ricotta. Al passaggio di queste mandrie, la gente veniva svegliata da campanacci, fischi e schiamazzi che facevano i pastori per dirigere le pecore. A volte gruppetti di ragazzi al passaggio di questi pastori, si nascondevano e qui a Orte veniva cantata la canzoncina della “Pecora bigia”:
“Tu pecoraro dalla pecora bìcia chjappa tu mójje pe’ la camicia, falla ballà falla sardà, quésta è la vita de’ ppecorà.”, Suscitando l’ira di quei poveri pastori. Il primo che arrivava sul posto stabilito, era sempre il buttero, dietro carretti e carri a quattro ruote pieni di viveri pieni di attrezzature, acqua e viveri, dietro seguiva il gregge con i pastori, poi il vergaro che vigilava la mandria e i pastori.
Subivano anche dei furti, durante il viaggio, c’erano ladruncoli che si appostavano dietro le siepi e sotto i ponticelli, al passare della mandria, cercavano di catturare qualche capo. Anche qui a Orte è capitato che invece di afferrare una pecora, ha tirato dentro al sacco un cane, così il povero ladruncolo, ha passato prima i guai con il cane poi con i pastori.
Di grande interesse culturale era anche il tratturo che attraversava Castel Bagnolo, non solo punto di transito ma destinazione finale di greggi e armenti provenienti dall’Abruzzo.
La famiglia Scipioni, proveniente dall’Abruzzo si era insediata a Bagnolo fin dai primi anni del secolo scorso, aveva migliaia di pecore, la produzione di latte e formaggio era molto abbondante, tanto che a Orte fino agli anni ’50 era diffusa una frase dileggiativa rivolta a persone che avevano i denti sporgenti, la quale recitava così: “Co’ quélli dèndi po' jjì a mmarcà i’ccacio a Bbagnòlo.” (Con quei denti può andare a mettere il marchio sul formaggio di Bagnolo).
A tal proposito, ossia di Castel Bagnolo quale destinazione finale dei transumanti, la testimonianza è stata rilevata in un’altra intervista.

INTERVISTA SULLA TRANSUMANZA A CASTEL BAGNOLO FRAZIONE DI ORTEI: I transumanti che passavano per Bagnolo o che si fermavano a Bagnolo da dove venivano?
- Sia dalle montagne umbre verso Norcia, Montecavallo e sia dall’Abbruzzi, Campotosto quelle zone lì. Scendevano verso il rietino poi venivano e si espandevano per l’agro ortano. La transumanza era da ottobre fino al 24 giugno, passavano qui tutto l’inverno, coll’erbaje eccetera.
I: Che vuol dire coll’erbajje?
- L’erbajje quelle che l’agricoltori preparavono, poi venivano le pecore e ce realizzavono ppascolo.
I: Quindi si preparavano le erbajje!
- Si. Le essenze specifiche per le pecore, era trifojjo ‘ncarnato e la biada, poi coll’evoluzzione la loiessa che c’ha un ciclo vegetativo più lungo, ha preso il sopravvento ma il trifojjo nincarnato e l’avena era l’erbajja in uso allora per le pecore. Pascolavano tutto l’inverno. Pagavano ed era una bella risorsa perché le verdure invernali, per il pascolo alle pecore va benissimo ma per l’utilizzo ai bovini poco.
I: Quindi gli agricoltori li preparavano per i transumanti?
- Si era creato un equilibrio tra pastore e agricoltore, davi l’erba a le pecore pe’ ttutto l’inverno, senza mannacce bbestiame pesante, le vacche ecc…
I: Qui si fermavano o passavano e andavano da altre parti?
- Qui a Bagnolo era tappa fissa, si fermavano proprio, arrivavano da Rieti e si fermavano per il periodo invernale.
Per dare una testimonianza a questo… Mazzilli, Cavallari, Scoscina, Scipioni, Paolini, Adriani, Blanchi che era de Visso e Antonelli, erano addirittura tre fratelli, sò tanti. Poi le cose sono cambiate e sono diventati residenti, ma sono venuti a Bagnolo da pastori.
I: Cosa ti ricordi dei transumanti?
- Io sto qui dal ’70, li ho conosciuti j’ho dato casa, j’ho dato ppascolo, li ho conosciuti propio ‘sti transumanti. C’erano le abbitazzioni per loro, c’era hai visto quella casa diroccata… ce so stati dentro i transumanti per anni e anni da la casa de Nesbitt, poi più su alla villa c’erano altri, io stesso j’ho dato l’appoggio. Con loro si era creata un’amicizia, erano sempre gli stessi, è difficile che si cambiava, si erano stabiliti buoni rapporti. Poi si ripopolava Bagnolo, molti bambini li portavano a scuola con i pulmini perché facevano le elementari. Tu capisci che le famijje alloggiate qui erano sei o sette, anche di più, un paio da Nesbitt, due ggiù da Mazzilli, quindi erano una decina di greggi che venivano.
I: Quante pecore c’erano in un gregge?
- Beh erano sette, ottocento, mille a ppastore ma… in tutto Bagnolo più de diecimila pecore sicuro.
I: Quindi i transumanti si stabilivano qui da Ottobre?
- Si da ottobre in base a come era la stagione, ma la data canonica che cessava il contratto era il giorno di san Giovanni il 24 giugno, allora c’era questa abitudine di mettere i santi a’ pposto delle date, san Giovanni pe’ la transumanza, sant’Anna pe’ la fine de la trebbiatura, san Martino… quello dell’ua.
I: Facevano prima l’acqua di san Giovanni e poi partivano?
- Si. Era così. Ma qui è stata fatta poco, era un’usanza che si stava già spegnendo.
I: Oltre a Bagnolo dove stazionavano i transumanti?
- C’era la principessa Falletti che aveva una proprietà piuttosto grande qui intorno a Bagnolo, con tante colonie che era da appoggio anche per i pastori. Stazionava a Bagnolo, Bagnoletto, Resano, dove aveva la proprietà la principessa. Stazionavano anche a Baucche nei casali, pascolavano con il gregge poi pijjavano una stanza e passavano l’inverno, da ottobre fino a giugno. C’ avevano lo stazzo.
I: Da quanto sei qui?
- Dal ’70, dal 1970 e i pastori venivano da Campotosto, da Visso, e un anno c’erano dei pastori sardi, però solo un anno in quanto si era creato un rapporto di continuità con gli abruzzesi.”

Carta 4v (10v) per gentile concessione di Abbondio Zuppante

ALCUNI TERMINI DIALETTALI ORTANI ODIERNI PRESENTI IN UN MANOSCRITTO DEL XIV SECOLO.IL DIALETTO ORTANOIl dialetto ortano si colloca all’interno della Tuscia viterbese nella sub-area falisco-tiberina.
“[…] Trovandosi Orte sul Tevere, cioè al confine dell’area laziale con la bassa Umbria, presenta numerose affinità con i dialetti di Otricoli, Narni, Terni, Amelia, centri con i quali la cittadinanza ha mantenuto in passato e mantiene tuttora continui contatti. Il profilo della parlata locale si presenta particolarmente significativo, anche perché Orte si è trovata per la sua posizione coinvolta in flussi migratori ed in tempi più recenti ha risentito del progressivo adeguamento allo standard linguistico della capitale. Un illustre dialettologo, in una rilevazione dialettologica effettuata negli anni 1958 – 59, a tal riguardo formulava un giudizio perentorio: “A Orte la lingua subisce un declassamento notevole, perché il peggio della corrente laziale-romanesca viene ad agire su un’area già di per se stessa molto tormentata” (M. Melillo, Confini linguistici tra alto Lazio e Umbria, in “I dialetti dell’Italia mediana con particolare riguardo alla regione umbra – Atti del V convegno di studi umbri – Gubbio – 28 maggio – 1 giugno 1967”, a c. della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Univ. degli Studi di Perugia, 1970, p. 503, num. 8).”
ENTRATE, USCITE E MEMORIE
Il registro di Bartolomeo da Orte, 1369 – 1403
Durante l’inventariazione dell’Archivio Storico del Comune di Orte, il dr. Abbondio Zuppante, storico, tra le carte sciolte trova un documento particolarmente significativo, un registro contabile di Bartolomeo da Orte, risalente al periodo 1369 – 1403, redatto in italiano volgare.
La preziosità del documento e la rarità di tale materiale, ha sollecitato il ricercatore ad approfondire, ad osservare e dipanare foglio per foglio in un continuum di articolazioni e ricostruzioni, con metodologia scientifica e oggettiva, con note esplicative relative al periodo e con un indice ragionato dei nomi delle persone in contatto con Bartolomeo.
Il registro contabile è costituito da 25 carte cucite tra loro, prive di copertina e non cartulate, misurano mm. 294 x 224.
L’autore, nello studio, approfondisce più aspetti che vanno dal registro rilevato (forma criteri di edizione e testo) nella prima parte; alla descrizione del tempo del redattore (il personaggio, la famiglia e la casa, le proprietà immobiliari, il popolamento delle campagne ortane, la situazione politica locale) nella seconda parte; infine sui contenuti (le attività del redattore e del suo ambiente socioeconomico, l’agricoltura e i molini, il commercio, il credito, la mobilità e i trasporti terrestri e fluviali, i lavori edili, i tessuti, gli abiti e gli ornamenti) nella parte finale.

La prima parte, il registro: la forma, i criteri di edizione e il testo.Per quanto concerne sia la forma che i criteri di edizione, non verranno approfonditi in questo elaborato, l’interesse invece verte sul testo.
Perché soffermarsi su un testo di fine ‘300 inizi ‘400?
La curiosità è stata stimolata da alcuni termini dialettali già presenti in quel periodo, alcuni dei quali correnti o da poco scomparsi, sia in ambito regionale che nel dialetto della Tuscia e, ovviamente anche a Orte. L’interesse e un primo approfondimento sono relativi a tale presenza.
“Ma al di là dell’interesse storico, economico e paleografico-codicologico, il manoscritto rappresenta un unicum per delineare l’evoluzione della lingua italiana in un’area assolutamente priva di altre testimonianze, che supera abbondantemente i confini comunali di Orte.”
Condividendo in pieno ciò che dice l’autore, aggiungerei che al di là della testimonianza per la lingua italiana, può essere utile anche per quanto concerne gli aspetti dialettologici, in quanto nella nostra area sono stati per molto tempo ignorati almeno fino a qualche anno fa. La rivalutazione di tali aspetti e della loro varietà nella Tuscia è sicuramente attribuibile agli studi di Petroselli e Cimarra.
L’ INDAGINEIl presente studio non vuole essere un approfondimento linguistico, né uno studio diacronico relativo ai termini, ma semplicemente una registrazione osservazionale rispetto ad una eventuale presenza ancora oggi di alcune parole dialettali nella comunità di Orte e di Terni risultanti presenti nello scritto rilevato da A. Zuppante e pubblicato dallo stesso ricercatore nel libro “Entrate uscite e memorie, il registro di Bartolomeo da Orte, 1369 – 1403”. Ovviamente ciò non esclude la presenza dei lemmi in altre aree della Tuscia o dell’Italia mediana né in altre regioni. Sono stati scartati nel presente studio i toponimi ancora presenti.
Lo studio è volto a rilevare quindi attraverso materiale dialettale contemporaneo (testi, registrazioni, video ecc..) l’eventuale presenza di termini già presenti nel Registro di Bartolomeo.
Ad un primo approccio, risultano presenti numerosi termini ancora in uso oppure solo recentemente scomparsi.
I TERMINI RILEVATIPrima di inoltrarci alla rilevazione di alcuni termini specifici, presenti nel registro, può essere significativo evidenziare ciò che scrive Zuppante nel capitolo “Agricoltura e mulini” parte III:
“Tra le proprietà di Bartolomeo, infine, potrebbe riferirsi a un altro orto l’accenno a un terreno da “Vottile” – forse lo stesso posto in Saseta – dato a lavorare al corrispettivo di un terzo del prodotto.”, aggiungendo una nota a piè pagina: “Ancora oggi a Orte per bottile si intende una riserva d’acqua, come poteva essere, in questo caso, l’invaso prodotto dallo sbarramento, la Para, del rio Paranza, nella valle di Sasseta.
La Para del rio Paranza è un toponimo ancora popolare e presente.
1v (15v) :
1. mene; pron. pers.: me (con epitesi di “ne”).
Registrazione dialettale méne.
2. de; prep. sempl.: di.
3. remasero; passato remoto del verbo tr. rimanere: rimasero.
Registrazione dialettale remàsero.
4. de li; prep. art., dei.
li; art. m. pl., i, gli.
2r (16r):
1. aveva auti; trapassato prossimo del verbo tr. avere: avuti, avuto.
Registrazione dialettale auti.
2. facemo; ind. pres. del verbo tr. fare: facciamo.
Registrazione dialettale facémo.
3. ala; prep. art.: alla.
Registazione dialettale a la.
3r (24r) :
1. de la; prep. art.: della.
2. sopre; preposizione e avv.: sopra.
Registrazione dialettale sópre.
3. da prete; prep. art. dal., dal prete.
Registrazione dialettale da’ pprète.
4. de preti; prep. art. dei., dei preti.
Registrazione dialettale de’ pprèti.
4r (20r) :
1. che avemo; presente indicativo del verbo tr. avere: che abbiamo.
Registrazione dialettale avémo.
2. esso; pronome personali maschile sing.: lui.
Reg. dialettale ésso.
3. aseno; nome sing. m.: asino.
Reg. dialettale àseno.
4v (20v) :
1. me; pron. personale tonico: mi.
2. mèle; sing. masch.: miele.
5r (23r):
1. granne; agg. grande.
2. so le cose; verbo ausiliare essere, 3° pers. plur.: sono.
Registrazione dialettale sò’.
3. stao; verbo intransitivo stare, 1° pers. sing.: stavo.
6r (21r):
1. mannamo; presente indicativo del verbo transitivo mandare: mandiamo.
2. remesso; participio passato del verbo transitivo rimettere: rimesso.
Registrazione dialettale remésso.
3. ne le; preposizione articolata: nelle.
4. pagamo; indicativo presente del verbo transitivo pagare: paghiamo.
5. la mitate; sostantivo femminile con epitesi di “te”: la metà.
6. remane; presente indicativo del verbo intransitivo rimanere: rimane.
7. Lodovico; antroponimo di Ludovico (?).
7r (22r):
1. quanno; avverbio e congiuntivo: quando.
2. vennemmo; indicativo passato remoto di vendere: vendemmo.
Registrazione dialettale vennémmo.
9r (1r):
1. dota; singolare femminile: dote nuziale.
Registrazione dialettale dòta.
10r (2r):
1. cummanno; indicativo presente del verbo transitivo comandare: comando.
2. rennuti; participio passato del verbo transitivo rendere: renduti, resi.
12v (17v):
1. dei; passato remoto del verbo transitivo dare: diedi.
Registrazione dialettale déi.
2. deo; indicativo presente del verbo transitivo dovere: devo.
Registrazione dialettale déo.
14r (3r):
mannai; passato remoto del verbo transitivo mandare: mandai.
matarazzo; singolare maschile: materasso.
lenzola; plurale maschile: lenzuoli.
Registrazione dialettale lenzòla.
solo; singolare femminile: teglia bassa.
Registrazione dialettale zzòlo.
14v (3v):
lo quale; art. det. masch. sing.: lo.
rennei; passato remoto del verbo transitivo rendere: resi.
Registrazione dialettale rennéi.
vennei; passato remoto del verbo transitivo vendere: vendei.
Registrazione dialettale vennéi.
Matregna; singolare femminile: matrigna.
Registrazione dialettale matrégna.
15r (5r):
mitade; sostantivo femminile: metà.
l’altri; articolo determinativo maschile plurale.: gli.
reccolze; passato remoto del verbo transitivo raccogliere: raccolse.
Registrazione dialettale: reccòrże.
15v (5v);
Somentare; infinito del verbo seminare: seminare.
Registrazione dialettale: somentà.
16r (6r):
lasseta; singolare maschile: lascito.
Registrazione dialettale: lasséta.
avea; imperfetto del verbo avere: aveva.
Registrazione dialettale: avéa.
volze; passato remoto del verbo transitivo volere: volle.
Registrazione dialettale vòlze.
16v (6v):
Vennei(i); passato remoto del verbo transitivo vendere: vendei.
Registrazione dialettale vennéi.
17r (7r):
1. addemannare; infinito del verbo transitivo domandare.
Registrazione dialettale addemannà.
18r (8r):
1. doi; aggettivo nominale cardinale: due
Registrazione dialettale dói.
2. cocchiarelli; maschile plurale: cucchiaini
Registrazione dialettale cocchiarèlli.
20r (14r):
1. calenne; sostantivo femminile plurale: calende.
Registrazione dialettale: calènne.
21r (9r):
macenato; participio passato del verbo transitivo macinare: macinato.
22r (10r):
1. calece; maschile singolare: calice.
Registrazione dialettale càlece.
22v (10v):
auto: participio passato del verbo avere: avuto.
23r (11r):
rennere; infinito del verbo transitivo rendere.
Registrazione dialettale rènnere.
23v (11v):
ditto; participio passato del verbo transitivo dire: detto.
remase; passato remoto del verbo intransitivo rimanere: rimase.
24r (12r):
damme; dare a me: darmi.

Carta 8v (18v) per gentile concessione di Abbondio Zuppante.

“Le Piane” primi del 1900

Lungo la salita della via Pubblica Passeggiata fino agli anni ’50 del 900 c’erano molti artigiani e commercianti, si potevano trovare calzolai, sellai, facòcchi, alcuni dei quali sono stati ricordati in una canzoncina dal titolo “A spasso per la città”, altri sono stati menzionati in alcune poesie da Ildo Santori.
Prima di arrivare alla piazza di sant’ Agostino (piazza del Popolo), la strada si divide in due, nel mezzo c’è appunto il monumento ai caduti della prima guerra mondiale.
Nella destra (salendo) via Giordano Bruno, da alcune ricerche sappiamo che è stata abitata per molto tempo da don Pacifico Arcangeli nato in realtà a Treia in provincia di Macerata nel 1888, cappellano, morto sul monte Grappa medaglia d’oro al valor militare nel 1918. Visse dall’infanzia a Orte in quanto la madre Elisa Bellioni era ortana. Amante della letteratura pubblicò vari libri, “Per due versi di Dante” (1910), “Letteratura e crestomazia giapponese” (1915), “Verso l’ideale” Poesie (1915) “Da chi avemmo l’Italia” (1916), “Orizzonti, spigolature e critiche letterarie” (1917), “Sotto la mitraglia: discorsi e liriche con un’introduzione sui problemi spirituali della guerra” (1917), “Rifare gli italiani” (1918). La scuola elementare di Orte ha il suo nome.

Don Pacifico Arcangeli

Nella sinistra, sempre salendo, via Matteotti, proprio alle prime case, abitava Leonildo Crocoli (Orte 1886 – 1955), “Nirdo” per gli ortani, il quale inventò le macchine irroratrici ossia la pompa per dare l’acqua alle viti, vincendo un premio a Firenze durante le feste commemorative del 50° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia nel 1911.

Diploma assegnato a Leonildo Crocoli dal Comitato
(per gentile concessione di Fiorella Crocoli)
Organizzatore dell’Esposizione Industriale - Firenze 1911
per l’invenzione delle macchine irroratrici.

Continuando a salire non si può tralasciare l’abitazione di un sacerdote e letterato contemporaneo don Delfo Gioacchini (Orte 1918 – 1999), il quale ha scritto tantissimo sulla storia ortana, occupandosi di letteratura, storia, confraternite, aspetti dialettali e popolari. È stato inoltre un grande conoscitore del Leoncini. Decine e decine sono le sue pubblicazioni, senza citare gli innumerevoli articoli letterari particolarmente significativi.
Sulla sinistra davanti alla casa di don Gioacchini, c’era inoltre un parrucchiere Bruno Palozzi, un pittore vincitore di svariati concorsi.
Il negozio di parrucchiere era collocato dove precedentemente c’era l’osteria di Barberano e spesso dopo il lavoro muratori e operai andavano a bere o a giocare a carte.
Subito dopo c’era una drogheria (così si chiamavano gli esercizi di generi alimentari) inizialmente gestito da una persona anziana, poi gradualmente dalla figlia Marcella Piersanti (Orte 1945) e dal marito Lanfranco Tanilli (Orte 1942). I due erano sposati da poco, qualche tempo più tardi la donna rimase incinta e nacque una bambina che chiamarono Stefania (Orte 1968). Ovviamente tutto il vicinato andava a fare domande circa la nascitura, lo sviluppo e il linguaggio. Tutti erano curiosi di sapere come era solito, quale fosse la prima parola che la bambina avrebbe detto. Non successe niente per un po' di tempo. Poi d’improvviso la madre comunicò ai clienti che finalmente la prima parola era stata pronunciata. Ci si aspettava la parola “mamma” o “papà”. Niente di tutto questo, la madre svelò la prima parola detta della bambina: “CAMBIALE”.
Salendo per il vicolo, troviamo la casa dove ha abitato per molti anni Corinna Ceccarelli (Orte 1939 – 2020), la quale è stata una pittrice naif particolarmente importante in Italia e all’estero, ha esposto molti quadri in varie mostre collettive e personali come Firenze (Palazzo Strozzi), Venezia (biennale d’arte), Roma (Palazzo Braschi) ecc., una sua opera la “La messa beat” è stata esposta per molto tempo nella pinacoteca vaticana della Santa Sede. Recentemente il comune ha acquistato molti suoi quadri facendo delle mostre.

Don Delfo Gioacchini (Orte, 1918 – 1999) benedice la cappella di san Marco a Orte Scalo.

Informatori che hanno contribuito al lavoro.

Cognome e nomeAnno di nascitaLuogo di nascitaProfessioneTitolo di studioTesti forniti
Agabiti Zelmira1912 - 2007OrteCasalingaLicenza elementare87,88
Alessandri Triestina1918 - 2000OrteCasalingaSeconda elementare134
Balestrucci Donatella1958OrteCasalingaDiploma superiore106
Bianconi Gino Secondo (Le Mafarèlle)1923 - 2008OrteOperaioLicenza elementare36,61,63 64,66,84.
Bonanni Pietro1908 -1996OrteBarbiereLicenza elementare44,80,81, 82,83
Bonanni Vanda1935OrteCasalingaLicenza elementare89
Bonifazi Ermente1935OrteAuto-trasportatoreLicenza elementare14,20,22 23,24,25 32,33,39 42,43,72 77,78,124
Bonifazi Silvia1970OrteCasalingaDiploma superiore104
Broglia Renato (Nando)1928 - 2017Stimigliano (RI)OperaioLicenza elementare95
Cannelli Agrippina1941OrteInsegnanteLaurea37, 67, 68
Cherubini Cesare1960OrteCommercianteLicenza media71, 72,73
Ciocchetti Mario1928 -2014OrteVeterinarioLaurea100
De Angelis Gianfranco (Commendatore)1944 - 2019OrteFerroviereDiploma superiore2,5,7,8,9, 15,16,74, 75, 136
Dionisi Vanda1938OrteCasalingaLicenza media91
Galli Francesco1954OrteFunzionario di bancaDiploma123
Giorgi Gabriella1952OrteInsegnanteDiploma superiore97,109
Impenna Angelo1959OrteOperaioLicenza media17
Labrecciosa Anna1940OrteArtigianaLicenza elementare1,12,13,86,114
Lalli Mario1917 - 2017OrteCarrettiereLicenza elementare113
Maccaglia Francesca1973TerniGiornalista televisivaLaurea107
Manni Mandolina1910 - 2000S.Liberato (NARNI) (TR)OperaiaLicenza elementare18,26,126
Marcoccio Vladimiro1943 - 2017OrteFerroviereLicenza media21
Massini Francesco (Blècche)1938 - 2014OrteFerraioloLicenza media111
Montanucci Paolo1963OrteSottoufficiale A.MLicenza media11
Paggi Pierina1928 - 2015OrteCasalingaLicenza elementare29,45,46 52,58,65
Palombo Mauro1965OrteImpiegatoLicenza media17, 53,62
Paris Amleto1930 – 2014OrteFerroviereLicenza elementare117,118, 125
Paris Egle1959OrteOperaiaLicenza media41, 105
Pastura Angelo1926 – 2022OrteFerroviereLicenza elementare6
Pecci Maria Rita1954OrteCasalingaDiploma superiore110
Piciucchi Renzo1944OrteFerroviereLicenza media27
Pimpolari Silvana (Ileana)1933OrteCasalingaLicenza elementare59,60, 92 93,108, 112, 122, 127,128, 129,131, 133, 137, 138,139
Pulcini Paola1957OrteCommercianteDiploma superiore40, 94
Rossi Lelio1944 - 2021OrteImpiegatoLicenza Media3, 10, 28, 142
Rossi Lora1940OrteCasalingaLicenza elementare120,121
Tiratterra Elisabetta1966OrteBancariaDiploma superiore98
Tomasiello Lucia1941TerniCasalingaLicenza media140, 141
Tranfa Romina1971OrteCasalingaLicenza elementare116
Vitantoni Fernanda1923 - 2014OrteCommercianteLicenza elementare4,31,34,35 38,47,48, 49, 50,51, 54,55,56 57,79,85, 90,91,96,102, 135
Zuppante Ernesto1943OrteCommercianteLicenza media69
Zuppante Ernesto1943OrteCommercianteLicenza media69
Zuppante Francesco1946 - 2018OrteImpiegatoDiploma superiore119

UNITRE Orte

Cognome e nomeAnno di nascitaLuogo di nascitaProfessioneTitolo di studioTesti forniti
Bonanni Carla1955 - 2016OrteImpiegataDiploma superiore 
Bonanni Vanda1935OrteCasalingaLicenza elementare 
Catalucci M. Grazia1941OrteSartaLicenza elementare 
Cestelli Clara1942OrteImpiegataDiploma superiore 
Fabrizi Maria1943 - 2018OrteCasalingaLicenza media 
Filesi Gilda1943OrteInsegnanteDiploma Superiore 
Gostoli Annunziata1941OrteCommercianteLicenza media 
Marzoli Lauretta1945OrteCommercianteLicenza elementare 
Marzoli Vittoria1942OrteCommercianteLicenza elementare 
Meteori Erina1942OrteCasalingaLicenza elementare 
Morelli Isolina1939BomarzoImpiegataLicenza elementare 
Tomasiello Lucia1941TerniCasalingaLicenza media 

Il lavoro del Laboratorio delle tradizioni popolari è stato fatto in equipe per cui i contributi sono da considerarsi di gruppo.

Tappa 2: Piazza de’ Ppòpolo
(Piazza Sant’ Agostino)

LLÀ PPE’ FFÒRI (FUORI IN CAMPAGNA): Erbe, piante, fiori, frutta in dialetto ortano.
Secondo il Leoncini il nome Orte deriva dai verdi orti che circondavano il masso tufaceo, altri come Giulio Roscio sostengono che lo chiamavano Orta per il fatto che si eleva sopra una roccia. La recente critica filologica collega il nome di Horta con la radice Hort variante del dialetto italico Hurtz, che significa luogo elevato. Ma guardandosi intorno di orti e di campagne ne ha in abbondanza.
Il carciofo ortano come ortaggio, ha una sua peculiarità, caratteristiche proprie e veniva venduto dagli ortani con i carretti in molti paesi limitrofi, giungendo anche a Terni. Si è sviluppato dalla fine degli anni ’80 anche un dolce chiamato carciofo, il quale è stato ideato da un gruppo di donne di Orte Scalo, le sue origini però risalgono al 1943/1944I canti di questua sono così chiamati in quanto dopo aver cantato, i questuanti chiedevano pane, olio, uova e beni di prima necessità come elemosina, per loro stessi o per i bisognosi. Tre sono conosciuti in molte parti d’ Italia, presenti anche a Orte, due dei quali ancora attivi: “La Pasquarella” (cantata la notte del 5 gennaio, il giorno prima dell’Epifania), e il “Cantamaggio”, canto popolare per salutare la rinascita della natura. Un altro scomparso circa settanta anni fa “La Passione” cantato dalla domenica delle Palme fino al Venerdì Santo, è stato recuperato in varie versioni.

LLÀ PPE’ FFÒRI (FUORI IN CAMPAGNA): Erbe, piante, fiori, frutta e ortaggi in dialetto ortano.L’ÈRBE LE PIANDE I’ FFIÓRI I’ FFRUTTI E LL’ORTAGGIAcàscia: cascia, acacia, robinia
Ajjo: aglio
Anzalata: insalata
Appizzatèlla: uva con acini molto allungati simile al pizzutello
Aràngio: arancio (albero) arancia (frutto)
Àrbero de Ggiuda: cerqua dai fiori rossi
Àrboro: albero
Arbuccio: pioppo
Asparaggio: sparicio, sparacio, asparacio, asparago
Biédajja: avena
Bièdola: bièda, bietola
Bracciòlo: ramo di olmo che sorregge la vite
Bricòcolo: albicocco (il frutto bricòcola)
Bròccolo: cavolo broccolo cimoso; cavolfiore
Brugna: prugna
Brugnòlo: prunalbo, prugnolo
Burraggine: borragine
Caccialèpre: cicoria selvatica
Caccujjèlla: bacca di rosa canina
Caco: cachi
Cagnalasino: tipo di fungo della famiglia dei porcini
Cannèi: mestolaccia, piantaggine d’acqua
Capomilla: camomilla
Cappuccio: broccolo
Carciòfino: carciòfono, carciòfolo, carciòfeno, carciofo
Carullo: noce vuota
Catéra: vetta del foraggio
Cecélle: piccole bacche
Cécio: cece
Cerasa: ciliegio anche ciliegie
Cèrqua: quercia.
Cetróne: cetriolo
Cetronèlla: melissa
Ciancone: fusto del granturco
Ciccétto: viticcio di vite, parte centrale di una pianta
Ciccio: viticcio; giovane germoglio
Cicèrchia: legume
Cicòria sarvatica: cicoria di campo
Cipolla pazza: erba cipollina
Cocómmero sarvatico: cocomero asinino
Cocómmolo: cocómmero, cocomero
Còppia: due grappoli d’uva attaccati.
Còsce de le mòniche: susine oblunghe con colore verdino
giallastro della quercia
Crògnole: bacche di corniolo
Crògnolo: corniolo
Cucchjarino: castagna vuota di frutto
Cucuzza: zucca
Drupo: chicco delle more di rovo
Èllera: edera
Erba mèrica: erba medica
Èrbavinca: pervinca
Erbétta: prezzemolo
Faa: fava
Faciolétto: fagiolino
Faciòlo: fagiolo
Fallacciano: fico primaticcio, fico fiorone
Famijjòla: famigliola buona
Farfarèlla: tossillaggine comune
Fauccia: fava di piccole dimensioni per alimentare gli animali
Femminèlle: getti infruttiferi
Férge: férce, felce
Fermiccio: frutto non maturato e sfatto.
Fiamma: succiamele delle fave
Finòcchio bastardo: aneto
Fòjja: foglia
Fragole sarvatiche: fragole selvatico
Fratta: siepe viva
Frasinéto: varietà di grano tenero.
Fusajja: lupino
Galletto: fungo gallinaccio, ciclamino
Garòfolo: garofano
Gentile: frutto di fico tardivo
Gènzolo: giuggiolo (frutto gènzola: giuggiola)
Gèrzo: gelso (frutto gèrza gèrze)
Gijjo: giglio
Giojèlli: fagioli
Gnagna: castagna
Gramiccia: gramigna
Grandurco: granturco
Grégne: covoni
Gréppio: greppo erba rampicante che fiorisce, piccole campanelle
Grespigno: crespigno
Guajalóne: fungo con il cappello sfatto
Lattuca: lattuga
Lattucèja: erba commestibile
Lauro: alloro
Liaro: lichiaro, erba per maiali
Lòffa: fungo, vescia gemmata
Lólla: pula
Lóppolo: lópolo, luppolo
Majòlo: tralcio di vite
Màndolo: mandorlo (frutto: mandola)
Marva: malva
Mazzòcchjo: germoglio commestibile di pianta coltivata o spontanea.
Mélla ruzza: mela di colore brunastro
Méllo: melo (frutto: mélla)
Méllogranato: melograno
Menduccia: mentuccia
Mentrasto: mendrasto, pianta di menta
Merangolo: bergamotto; arancio amaro
Meregnano: merignano melanzana
Misticanza: misto di erbe selvatiche
Morasca: mora
Mòra di rógo: mora di rovo
Morìca: moriga mora
Mórro: germoglio di tubero
Mosciarèlle: castagne secche e sbucciate
Mungo: fungo
Mùstio: muschio
Nìpote: viticcio
Nòcchia: nocciola
Odóri: erbe aromatiche
Olìa: oliva
Olìo: olivo
Orchidèa sarvatica: orchidea selvatica
Orìgono: origano
Órmo: olmo
Ortìga: ortica
Òsso: nòcciolo
Pallùccola: galla, escrescenze rotonde e leggerissime prodotte da
punture di insetti che si formano sulle foglie o sui rami
Palommèlla: varietà di fungo edule, lattone
Pamidara: pamitara, pamadara, pannitara, panitara, parietaria
Pampéna: foglia della vite
Pampùjje: foglie secche
Pancaciòlo: bulbo dello zafferano bastardo
Papame: rosolaccio
Parma: palma
Perazzo: perastro, pero selvatico
Pèrzica: pèsca
Petata: patata
Peticóne: tronco
Piantóne: albero di olivo
Piccasórce: pungitopo
Pìmpolo: fico molto maturo e non più sodo.
Pisciallètto: tarassaco
Pisciacane: dente di leone
Pommidòro: pummidòro, pomodoro
Porcalacchia: porcacchia
Portugallo: portogallo, purtucallo, arancia
Pràtano: platano
Premutico (frutto): primaréccio, frutto primaticcio
Prièlla: prugna, susina
Primavera: primula
Profìcio: fico dalla buccia marrone e polpa di colore rossastro
Pròspara: peronospora
Prunnélle: piccole prugne selvatiche
Puntarèlle: germogli teneri di erbe o ortaggi.
Punta: parte terminale del fusto di granturco
Quaialone: fungo divenuto grande, molto maturo e quasi sfatto
Radica: radice
Radica gialla: carota
Radicara: insieme di radici
Rama: ramo
Rapanèlle: ravanelli
Rapastèlla: rapastrèlla rapa selvatica
Rapónzo: raponzolo
Rinasciticcio: germoglio
Riquilizzia: requilizzia, liquirizia
Róo: rovo, plur. rói
Rughétta: rugolétta, rucola
Rumbazzo: rumpazzo grappolo
Sammuco: sammugo, sambuco
Sarge: salice
Sàrvia: salvia
Scafo de sant’Angelo: carruba
Scafo: baccello di fava
Scarpette de la Madonna: fiori a grappolo del glicine
Scarza: scarsa, steli di pianta palustre
Schizzamusi: erba a forma di piccolo melone che reciso schizza i propri semi.
Scopìjo: ginestra dei carbonai
Sdremmarino: sdrammarino, smarino, rosmarino
Seccaròtto: ramo secco e spoglio di foglie
Sòrvo: sorbo (frutto: sòrva)
Spaccaòsso: pesca spaccatella
Spica: spighétta spichétta, spighétto, spichétto, lavanda
Spinaro: vepraio, spineto
Spràmia: lattaiola
Stracciabbraghe: salsapariglia
Strilli: strigoli
Succa: zucca
Succhétta: zucchina
Tardìo(frutto): frutto che matura tardi
Tòdero: pannocchia di granturco
Tortijjóne: tamaro
Torosèlla: torzella
Tramo: mignola, infiorescenza racemosa dell’olivo
Trapassato: frutto eccessivamente maturo, sfatto
Ùa: uva
Vétrica: vetrice, salice da vimini
Véttolo: ramo del salice da vimini
Vitabbia: vitalba
Vischiarèlli: rametti ricoperti di vischio per catturare gli uccelli
Vìsciola: ciliegio aspro, ciliegio acido.
Zzambuco: sambuco
Zéccoli: castagne lessate dopo sbucciate
Zèllero: sèllaro, sèllero, sedano
Zzaraménto: sarmento
Zzemétto: seme per erbai

NASCITA DEL CARCIOFO ORTANO COME DOLCE:
UNA PREZIOSA TESTIMONIANZA
L’importanza del carciofo come ortaggio di Orte è ampiamente documentata e dimostrata, la sua peculiarità ha stimolato ad approfondire gli studi in ambito di ricerca universitaria, sono innumerevoli le testimonianze raccolte in ambito popolare sulla vendita del carciofo ortano in particolare nella vicina Umbria.
I venditori di carciofi, partivano con il carretto e arrivavano fino a Narni e Terni ecco i nomi di alcuni venditori di cui qualche anziano di Orte si ricorda, Virgilio Bocci (Orte 1872 – 1955), Olderigo Ralli (Orte 1891 – 1968), Ottavio Sciarrini (Orte 1905 – 1990), Artenzio Pimpolari, (Orte 1888 – 1962), Irma Fabrizi (Orte 1888 – 1956), Delfo Santori (Orte 1916 – 2009).

Delfo Santori mentre va a vendere i carciofi a Terni passando per Amelia.
(Per gentile concessione di Massimo Santori).
È stato riconosciuto come varietà autoctona a sé stante diversa dal carciofo romanesco e ad altro rischio di erosione genetica ovvero di estinzione, per cui si sono approfonditi gli studi ed è stato salvaguardato nella sua originalità e specificità.
Alcune persone come lavoro vero e proprio facevano i venditori di ortaggi ma in particolar modo dei carciofi quando era il suo tempo.

IL CARCIOFO ORTANO COME DOLCEPer quanto riguarda il carciofo ortano come dolce, l’origine non ha portato a documentazioni significative fatte a persone anziane di Orte nel centro storico né tantomeno nelle campagne. Da alcune testimonianze la diffusione del dolce è comparsa tra la fine degli anni ‘70 e gli inizi degli anni ’80 del 900.
Claudio Paolessi ha raccolto informazioni particolarmente utili e preziose sull’origine e lo sviluppo del carciofo ortano come dolce. La testimonianza della madre 92enne appare attendibile, in quanto anche altri conoscenti confermano la stessa cosa (es: Bruna Bocci nata a Giove (TR) il 16/05/1938, figlia di Giselda Lisciarelli), residente a Orte Scalo, inoltre i dati sono confermati dai nipoti delle donne nominate dalla sig. Leandra Riccardi in quanto lo sentivano dire dalla madre e dalle nonne.
In un confronto fatto tra la signora Leandra Riccardi e Bruna Bocci, si è ottenuta ulteriore conferma della testimonianza.
L’intervista è stata effettuata da Claudio Paolessi, nato a Orte il 04/08/1960, impiegato commerciale. L’intervista è stata effettuata il 1° dicembre 2024, alla madre Leandra Riccardi, nata il 15/08/1932 a Orte.(I) Intervistatore: Claudio Paolessi.
(L) Intervistata: Leandra Riccardi.
(I) Come è nata questa cosa del carciofo ortano dolce?
(L) È nato che… è arrivata questa signora da Giove, si chiama Gisella Bocci.
(I) Sarebbe la nonna di Andrea Angeluzzi?
(L) Si, sarebbe lei, la nonna di Angeluzzi.
(I) In che anni è arrivata?
(L) Nel … ‘43… ‘44…
(I) E tu c’avevi…?
(L) C’avevo 12 anni.
(I) E che ha portato?
(L) Ha portato questo dolce detto carciofo, però non era così, era tutto un po' più duro, non era bello cresciuto e dorato. Anche il forno è tanto importante, poi l’hanno modificato.
(I) Dove lo facevano?
(L) Ehhh giù dal Ghetto.
(I) Chi lo ha modificato? Chi sono?

Forno dove sono state fatte le prime graduali modifiche del carciofo ortano come dolce in Via Piacenza nominata “Ghetto” a Orte Scalo (Foto di Claudio Paolessi).

Interno del forno in via Piacenza “Ghetto” dove sono state fatte le modifiche partendo dal biscotto originale a Orte Scalo, foto di Claudio Paolessi.(L) Queste signore erano Giselda, Pasquina, Marsilia mia madre, Elvira e poi Maria Fidenzi.
(I) Che hanno modificato?
(L) Hanno aumentato lo zucchero innanzitutto, il burro e il latte, l’arancio era solo grattugiato e il lievito di birra.
(I) Mentre prima si faceva con il lievito madre?
(L) Penso che lo facevano con il lievito madre, soltanto in quel modo gli poteva venì.
(I) Ma la cosa importante del carciofo ortano?
(L) È la cottura, è il forno. Il forno era a legna, queste donne erano bravissime per fare il forno. Quest’altre delle cucine nostre, se lo apri nel momento sbagliato te rivà ggiù.
(I) Quindi questo dolce era un biscotto e invece l’hanno modificato?
(L) È venuto bello, morbido, bagnato dentro, sembra che non è cotto invece è il latte e lo zucchero, la vaniglina, quella cremina che rimane dentro.
(I) Ora abbiamo detto della nascita del carciofo ortano che era bianco.
(L) Era bianco. Dopo sulla quarta stesa, abbiamo aggiunto pezzi di cioccolata, gocce di cioccolata o pezzetti di cioccolata fondente e a chi piace anche l’uvetta.
(I) L’alchermes quando è stato messo?
(L) Qualche goccia anche in questa stesa, qualche goccia qua e là per bellezza, però abbiamo messo del latte che ci si unge il carciofo dopo cotto. Cioè la cremina ultima abbiamo aggiunto latte, zucchero e vaniglina.
(I) Dopo qualche anno?
(L) Eh sì dopo parecchio, pian piano ognuno ha fatto le modifiche: ciliegine, candidi ecc.
(I) Ecco ora facendo un riassunto di quello che abbiamo detto…
Giselda, la nonna di Andrea e Pasqualino Angeluzzi, venne da Giove, portò questo dolce che era simile al carciofo ma era un po' più ammassato, era fatto con il lievito madre, per cui era quasi un biscotto. Le signore che abbiamo elencato hanno avuto l’idea di correggerlo, mettere al posto del lievito madre il lievito di birra e aggiungere rispetto al vecchio dolce, un’aggiunta di latte, un’aggiunta di burro e lo zucchero.
Ora diciamo gli ingredienti del carciofo ortano dolce originario.
(L) Allora, uova, zucchero, farina, limone, l’arancio, burro, una bustina di vaniglia, il lievito di birra, latte e poi si fa.
(I) Mi dicevi che come procedura ci volevano tante ore per la lievitazione, per l’impasto… queste cose qua.
(L) Ce vuole per il carciofo, perché richiede un’accortezza che non ce l’hanno altri dolci. Ce vuole il caldo.

Carciofo ortano originale. Foto di Claudio Paolessi

Prime modifiche del carciofo ortano. Foto di Claudio Paolessi(I) E la cosa più importante?
(L) È il burro montato. La cosa più importante è la cottura, la cosa più importante è il forno che prima si faceva con il forno a legna.
(I) Ma dove veniva fatto? Esiste questo forno?
(L) Si.
(I) Allora dopo faccio le foto. Buona serata.
(L) A te.

I’ CARCIOFO DORGEJemo fatto ‘n grosso torto,
perché avemo celebrato,
quello che produce l’orto,
e tenuto l’andro a lato.
E cosi, anche ‘n ritardo,
ce mettemo ‘npò ‘na pezza,
e lo famo co’ riguardo,
pé ‘zzecondo ch’Orte apprezza.
Quello dorge, de carciofo,
nun se sà chi l’ha ‘nventato,
c’è chi dice è stato Bofo,
pe la festa de ‘ccontado.
De sicuro è roba nostra,
perché qui ce sta ‘rretaggio,
né paese ‘n bella mostra,
fa la coppia co’ l’ortaggio.
Nun esiste ‘n andro uguale,
o che ce assomij ‘n poco,
bello, grasso, originale,
se produce solo ‘n loco.
Se presenta a più capocce,
tutto quanto ammazzettato,
e cià dendro tante gocce,
de canditi e cioccolato.
Poi c’è zzucchero e lliquore,
‘nsieme all’ova e la farina,
quanno è cotto e cià colore,
è ‘na cosa sopraffina.
Se lo taji, ‘n momento,
esso emana ‘na fragranza,
che scatena ‘ godimento,
e te stuzzica la panza.
De magnallo nun se smette,
ttant’è bono ‘nnostro dorge,
e ‘n fai a tempo a fa le fette,
che sparisce e ‘n andro sorge.
Noi dovemo avecce ‘n fine,
daje immagine mijore,
ch’esso fora da cconfine,
ce pò sta, da primo attore.
Fabrizio Moretti 2013I’ CCARCIÒFINOA pparte i’ffatto che a Orte è la più mèjjo verdura che ce sta,
da ‘n zò chissà quandi paesi ill’ortani lo annavono a pportà.
I’ccarciòfino de Orte richiama tanda ggènde:
chi lo ‘ssaggia rivène e mmai, mai se pènde.
Lo pòi fa a la ggiudìa, si nnò pure fritto:
m’hai da creda’, è pròprio ‘m bòn piatto.
Certo pe’ ccarciòfino ce pijjono pure quarche ccrisitiano,
che lo vedi ‘m po' torzone, ‘m po' patalòcco o strano.
Ma i’vvero carciòfino, quello de Orte,
pe’ magnà è ‘m piatto pròpio forte.
Lo pòi magnà come primo piatto o come condorno,
lo pòi cucinà su i la padèlla oppure dendro a’ fforno.
Adèsso spalanga i’ ggargaròzzo e tutto i’ ppalado:
i’ ccarciòfino come ddorge a Orte è i’ ppiù rinnomado.
IL CARCIOFOA parte il fatto che a Orte è la migliore verdura che ci sta,
da non so chissà quanti paesi gli ortani lo andavano a portare.
Il carciofo di Orte richiama tanta gente:
chi lo assaggia riviene e mai, mai si pente.
Lo puoi fare alla giudia se no anche fritto:
mi devi credere è proprio un buon piatto.
Certo per carciofo ci prendono pure qualche persona
se lo vedi un po' stupido, sciocco o strano.
Ma il vero carciofo, quello di Orte
per mangiare è un piatto proprio forte.
Lo puoi mangiare come primo piatto o come contorno
lo puoi cucinare sulla padella oppure dentro al forno.
Adesso spalanca la gola e tutto il palato:
il carciofo come dolce a Orte è il più rinomato.

Ricetta di Leandra Riccardi quando il carciofo era stato elaborato per diversi anni, ricevuta dalla madre Marsilia. (Foto per gentile concessione di Claudio Paolessi)

I CANTI DI QUESTUA: LA PASQUARÈLLANATALE D’ALTRI TEMPI
(Scritto di don Delfo Gioacchini)
“A sentire i nostri vecchi rievocare la festa di natale, e il fervore e le tradizioni che l’accompagnavano, c’è da struggersi di tenerezza.
In tempi così disincantati e un tantino scettici come i nostri, riviver
con loro quelle giornate, così lucide e vive nella loro mente, è come respirar una boccata d’aria pura su una montagna e contemplar
più sereni orizzonti.
Il Natale era bello, e si aspettava non certo per le luci e per i doni.
Nel popolo non c’era benessere; c’era invece miseria, e spesso,
la fame. Per le strade, i lampioni si spegnevano presto e,
quanto ai regali, i bambini potevano aspettarsi tutto al più,
qualche palla di fichi secchi o una manciata di mosciarelle.
Ma in compenso non c’era casa, per povera che fosse, in cui non bruciasse il ciocco, per riscaldare il bambinello, si diceva.
Il ciocco era simbolo del Natale dei poveri.
In quelle giornate si avevano delicatezze impensate.
I contadini ortani (e allora la società ortana era tutta contadina) strappavano la vita con molti stenti e tanta fatica.
Tiravano avanti a forza di polenta e di granturco.
Ma a Natale il poco grano non venduto serviva a fare una
bella infornata di pane, e la sera della vigilia la tavola
apparecchiata con i ceci (i ceci di natale) e gli spaghetti all’alice,
i broccoli fritti, il merluzzo con l’uva secca, prendeva un colore tutto nuovo.
Nel mettersi a mensa, la famiglia si inginocchiava per la preghiera intonata dalla madre: un Pater Noster, in un latino storpiato, al Bambinello, uno a S. Giuseppe e tre Ave Maria alla Vergine Benedetta.
Poi si mangiava e si giocava a tombola, in attesa della Messa di mezzanotte. Nell’uscir di casa per andare in Chiesa era d’obbligo
lasciar la tavola apparecchiata, perché doveva passare Gesù Bambino!
Intanto il capo famiglia si recava alla stalla per un altro gesto rituale, cui non avrebbe mai rinunciato: l’offerta al “somaro” di un tozzo di pane fresco. Voleva essere, anche questo, un modo di dire grazie, un invito a partecipare alla festa comune.
“Godi anche tu!” gli dicevano, mettendogli con una mano il pane dinanzi alla bocca, e con l’altra accarezzandogli e grattandogli affettuosamente il collo. Il somaro, infatti, conosceva la stessa vita e la stessa fatica del padrone: quel poco che la terra produceva era anche merito suo.
Faceva, si direbbe, parte della famiglia. Era giusto, dunque, che anche lui assaggiasse, una volta all’anno, come il padrone, un boccone di buon pane. Natale, nel quadro delle feste, era un punto di arrivo, una giornata tenuta d’occhio da gran tempo. Si direbbe che una volta entrati nel mese di dicembre, i giorni si contassero come tanti pioli di una scala che finalmente arrivava al punto giusto. Sulla bocca dei nostri vecchi abbiamo colto una filastrocca, che se non proprio di origine ortana, fu certamente assai diffusa nel nostro territorio.
È un misto di devozione e di umorismo che cantava, con innocente impazienza, le giornate e i santi che precedevano, nel lento svolgersi del mese, verso il gran giorno:
Il primo di dicembre è Sant’Anzana
A lì due è Santa Bibiana.
A lì quattro è Santa Barbara beata.
A lì sei è San Nicola è per la via
A l’otto è la Concezione di Maria
A lì dodici ci convien di digiunare
Perché alle tredici è Santa Lucia.
A lì ventuno San Tommaso canta
A lì venticinque è la Nottata Santa.
A lì ventotto so’ gl’Innocentini
e… so’ finite le feste e li quattrini!
Le feste di Natale, con le tombolate serali, il chiasso e l’allegria, duravano
fino a S. Giovanni. Questo giorno era dedicato ad una gentile costumanza. “S. Giovanni: tutti i figli vanno dalle madri”, si diceva, e il ritorno dei figli e delle figlie nella casa dalla quale erano usciti e dove vivevano i genitori era
un modo, anche esso, di esaltare il sentimento della famiglia, e la Madre in particolare, che veniva quasi a simboleggiare la Madonna, cui tutti i figli,
novelli Giovanni, rendevano affettuoso omaggio.
“A lì 28 son gl’Innocentini
e... so’ finite le feste e li quattrini !...”
E si tornava riposati al lavoro, ma con il cuore volto a preparare e ad aspettare un’altra festa: la vigilia della Pasquarella.
Di tanto la nottata di Natale era intima e raccolta, di altrettanto quella della Pasquarella era gaia e rumorosa. Uscivano sul far della sera, gruppi di tre o quattro persone, uomini per lo più, e si spargevano per le case di città o di campagna, a “cantare la Pasquarella”, attesi, accolti e benedetti, con un bicchier di vino già preparato e le povere, umili offerte da deporre nel canestro che uno di essi portava infilato nel braccio: uova, salsicce, uva secca e qualche bottiglia di vino.
Accompagnati dall’ “orghinetto”, quei canti, non sempre perfettamente intonati, ma sempre ascoltati con devozione, creavano un’atmosfera di raccolto stupore. Al chiudersi del ciclo delle feste natalizie, era questo un modo di fissare nel cuore per tutto il corso dell’anno, la speranza accesa da Cristo, sceso in terra a farsi umile e povero, come loro.
Si ritrovano in questi canti, insieme ad espressioni di commovente gentilezza, immagini di più saporosa corpulenza. Noi non sappiamo chi ne sia stato l’autore, ma certo, la poesia approssimata in cui erano composti, le sgrammaticature, le assonanze, le ripetizioni, i versi zoppicanti, ecc. indicano, senza ombra di dubbio, l’ambiente popolare dal quale provengono. Sentire, ad esempio, questo che abbiamo potuto raccogliere sulla bocca dell’ultimo cantore della Pasquarella:
“Ecco ch’è notte e si rallegra il mondo
Ecco la santa notte di Natale.
È nato il Redentissimo del mondo
il Figlio di Maria, l’originale”.
Il Santo Padre Eterno accosì vole
de fà venir tre magi dall’Oriente.
Per compagnia si portò la stella,
la stella camminò sempre con loro.
La stella si posò ‘n quella capanna
dov’era quel ricchissimo tesoro.
Pasquarella befania
Tutte le feste si porta via.
Ma rispose Sant’Antonio:
piano, piano ... che c’è la mia!
Ma rispose ‘na vecchiaccia:
semo inverno fino a Pasqua!
Abbiam cantato su la pietra vecchia:
affaccete Padrò, dalla finestra:
abbiam cantato su la pietra nova:
affaccete, Padrò, e dacce l’ova !”
O quest’altra, colma di tenerezza all’inizio:
“Su, su, su su, pastori,
andiamo a trovare Gesù.
E non tardiamo più,
che già l’è nato.
Verbo incarnato
Maria verginella
Sotto la capannella
L’ha posato.
Maria portò la pace
Di quello che io ti ho detto:
Angelo benedetto,
spargela in via,
piena di allegrezza
e di Maria “.
Qui all’improvviso il tono cambiava e da tenero e raccolto si faceva vivace e sbrigliato:
“Fate presto a aprì la porta
Che dal ciel casca la brina ...
Che c’è presa la tremarella,
viva, viva la Pasquarella,
Catenaccio della porta,
sei di ferro e non m’importa,
perché ci hai la figlia bella,
viva, viva la Pasquarella “.
Si stava in giro per tutta la notte e si bussava a tutte le porte. Saltarne una, era come fare un’offesa. E se la porta tardava ad aprirsi, i cantori intonavano impazienti:
“Dalla corta ne venimo,
pe’ la lunga dovemo annà!
Si ce date qualche cosa,
non ce fate più aspettà...”
E via via che le offerte scendevano a riempire il canestro, il gruppo invocava o commentava:
Si ce date un ovarello
Ce faremo la frittatella
Quanto è grossa la padella.
Viva, via la Pasquarella.
Si ce date ‘na sarciccia,
sò la fija di magnaciccia,
si ce date un sanguinaccio
sò la fijja de Paolaccio.
I cantori più appassionati della Pasquarella nell’ultimo ‘800, nel periodo, cioè, in cui la vita di Orte non era stata ancora turbata dalle lotte politiche, furono Peppino di Trenta, un omino alto un metro e cinquanta, ma tutto pepe e sale, che si accompagnava con il violino, e un certo Angelo de Menelik.
Oggi la tradizione è tornata, ma non è più quella. Non si bussa più alle porte, ma si va per le strade e per le piazze. Nel silenzio della notte, il coro di giovani che si leva con accompagnamento di chitarre, fisarmonica e sassofono a cantare “Tu scendi dalle stelle” o “Astro del ciel”, è accolto dai cittadini con riconoscente compiacimento. È questo, ci sembra, il modo più adatto, per augurare, alla inquieta società del nostro tempo, che dopo la pausa delle feste natalizie si accinge a tornare alle attività di ogni giorno, la speranza e la pace di cui ha sempre bisogno.”

Cantori della Pasquarella (pasquarellari) anni ’80

EPIFANIA DEL SIGNORE“Abbiamo visto sorgere
la sua stella in oriente
e siamo venuti per adorare
il Signore”
(Matteo 2,1)
La “Pasquarella”Ecco ch’è notte e se rallegra i monno
ecco la Santa Notte de Natale.
E’ nato i Redentissimo de monno
i fijo de Maria l’Originale.
Su su, su su pastori
namo a trovà Gesù
e nun tardamo più
che già l’è nato.
I Verbo s’è incarnato, Maria Verginella
sotto la cappannella l’hai posato.
Fate presto a aprì la porta
che dal ciel casca la brina
che c’è presa la tremarella
viva viva la Pasquarella.
Catenaccio de la porta
si de ferro e nun c’emporta
perché ciai la fija bella
viva viva la Pasquarella.
Da la corte ne venimo
pe la lunga ce tocca annà
si ce date quarche cosa
nun ce fate più aspettà.
Si ce date n’ovarello
ce faremo n’a frittatella
quant’è grossa la padella
viva viva la Pasquarella.
Si ce date na sargiccia
semo fiji de magna ciccia
si ce date ‘n sanguenaccio
lo magnano bello e jaccio.
Da la corta ne venimo
pe la lunga ce tocca annà
si ce date quarche cosa
nun ce fate più aspettà.
Emo cantato su la pietra vecchia
affaccete padrò da la finestra
emo cantato su la pietra nova
affaccette padrò e dacce l’ova.
Pasquarella Befania
ogni festa porta via
ma rispose Sant’ Antonio:
piano un po’ che c’è la mia.

I CANTI DI QUESTUA: LA PASSIONELa passione è un canto di questua molto diffuso in varie parti d’Italia, soprattutto nell’area mediana. Si conoscono varie versioni, viene cantata durante la settimana santa, dalla Domenica delle Palme fino a quando non si sciolgono le campane.
Durante la Settimana Santa oltre che il canto della Passione, venivano anche fatti dei riti e/o recitate delle preghiere. In un’intervista da me effettuata a Orte si è rilevato che si riteneva doveroso in quella settimana contenere anche l’esultanza della natura, infatti nella testimonianza di Vittoria e Lauretta Marzoli di Orte ho rilevato che si legava il ciliegio con una fune.
“Vittoria: Io mi ricordo che babbo […] legava il tronco ad un ciliegio con una corda. Lauretta: si legava un ciliegio con una fune. Vittoria: Ho chiesto anche a Carlo, Carlo è il più grande di no, è del 1930, di questa usanza che anche lui conosceva, che aveva visto fare da babbo e dai contadini vicini, ho chiesto che significato avesse e lui ha detto che lo facevano anticamente in campagna molti contadini di Orte e nei dintorni di Orte sotto la Penna, […] e anche nelle zone di Cimacolle. Intervistatore: Ah c’era questa usanza? Vittoria: Si si, noi abitavamo in località Le Grazie, precisamente ci ricordiamo che durante il periodo della Passione c’era questo ciliegio, legato da una fune durante la Settimana Santa proprio sotto ai “Cappuccini” e ce lo ricordiamo. […] Precisamente lo legavano il Giovedì Santo quando si legavano le campane e lo slegavano quando si scioglievano le campane. In quel periodo venivano sciolte il Sabato Santo alle 10 del mattino. Quindi il ciliegio restava legato il giovedì, il venerdì e il sabato alle 10 si slegava.”
I canti registrati della Passione a Orte sono:1) Le ventiquattr’ore.
2) La morte di Gesù.
3) Già condannato il Figlio.
4) I piedi beati.
LE VENTIQUATTR’ORELo preparà di un’ora di quell’ultima cena
e ccon faccia serena GGesù così pparlò.
Dicéssi ll’ho tradito dicéssi l’ho llégato
e Ggiuda disgrazziato rispose non zarò.
Le ddue i rredentore Ggiuseppe ti allevò
gli disse dell’errore ch’io ti perdonerò.
Le tre ddel sacramento d’istinto il Salvator
in ttutto il cuor contento il corpo dispenzò.
Alle quattr’or si vvòlse con tanta compassio’
che fra llancia rivolse così Ggesù parlò.
Le cinque fu nell’orto facendo l’orazzione
le sei dal Padreterno bòn Ggesù si presentò.
Le sètte non si termina la turba lo menò
alle òtto una lanciata da’ bbòn Ggesù toccò.
Le nòve ‘na schiaffeggiata allora Ggiuda si turbò
la dieci carcerato da bbòn Ggesù toccò.
Ecco che fu accusato sonando ll’undici or
le dodici a Ppilato bbòn Ggesù si presentò.
Le tredici di bbianco vestito il Salvator
ferito da una canna pe’ dargli più dolor.
Portando il crocifisso che ffà quattordici or
Pilato se ne afflisse per non commette’ l’error.
Legato alla colonna che fa le quindici or
battuto e fflagellato o Ccristo è gran dolor.
Incoronà’ di spine che fa le sedici or
le tempie sue divine il suo sangue riversò.
Alle dicissett’ora la penna si addoprò
pe’ dda giusta sentenza da bbòn Ggesù toccò.
Di chiodi e di martelli che non si preparò
o croce a Ridentóre le dici d’otto andò.
Alle dicinnov’ ore da st’avventure annò
alle venti da bevere gli chiese l’Aridentó.
Suonando l’avventuna la testa si anghinò
l’anima santa e pura da’ Ppadreterno andò.
Alle ventiddu’ore l’unchino trapassò
con ffèrro e con furore su’ ppètto lo piagò.
Alle ventitré ore sulla croce lo levò
e la mamma con dolore sulle bbraccia lo pigliò.
Alle ventiquattr’ore Ggesù risuscitò
con suoni e ffèste e ccanti dall’altra gloria andò.

LA MORTE DI GESU’La mòrte di Ggesù Maria s’affanna
Ggesù che fu legato alla colònna. (bis)
Ggesù che fu legato alla colonna
che fu bbattute le ggèndi di Ranna. (bis)
Che fu bbattute le ggèndi di Ranna
senti lu pianto che fa la Madonna. (bis)
Senti lu pianto che fa la Madonna
vèni Giovanni a conzolà Mmaria. (bis)
Vvèni Giovanni a conzolà Mmaria
vèni Giovanni che nnòva ci porti. (bis)
Vèni Giovanni che nnòva ci porti
la nòva de zzuo figlio vivo o mmòrto. (bis)
La nòva de zzuo figlio vivo o mmòrto
o vivo o morto lo ritroveremo. (bis)
O vivo o mmòrto lo ritroveremo
la strada del Ccalvar che noi faremo. (bis)
La strada del Ccalvar che noi faremo
e bbutteremo ‘na strillande vóce. (bis)
E butteremo ‘na strillande vóce
il figlio di Maria non arispóse. (bis)
Il figlio di Maria non arispóse
ll’è morto e ccondannato su la croce. (2 v.)

GIA’ CONDANNATO IL FIGLIOGià condannato il filio
dalle ribbalte squadre
chiède all’affritta madre
i’ ffijjo mio dov’è?
Corre ma ad ogni via
ingontro alle piangèndi
e cchiède angor piangèndo
il figlio mio ddov’è?
Interroga le madi
divine e ssèi filiole
ma noi che siam divine
il filio mio dov’è?
Oh madre dolce cara
la Vergine Maria
permetti che io ti dica
che il filio tuo morì.
Le tombe e sassi e mmonti
le stelle mare e sfera
per fa sapere a tutti
che il figlio suo morì.
Ella: “Di crudèl curminisse
questo esegèr eccesso?”
“Oh dolce Madre io stesso
il figlio tuo morì.”
Per me quel figlio cadde
per me lo vidi morto
inzanguinato e spento
lo spirito salvò.
Per soddisfare oh Vergine
il mio diletto indotto
per disprezzar quel piando
che ttu vverzasti un ddì.
Tlaccato angora t’offro
Eterno Divino Padre
le pene della madre
il zangue di Gesù.
Già condannato il figlio
dalle ribalde squadre
chiede all’afflitta madre
il figlio mio dov’è?
Corre ma ad ogni via
incontro alle piangenti
e chiede ancor piangendo
il figlio mio dov’è?
Interroga le mesti
figliole di Sion
ma noi che siamo divine,
il figlio mio morì?
Oh madre dolce cara
Oh Vergine Maria
Permetti che io ti dica
Che il figlio tuo morì.
Le tombe i sassi i monti
Le stelle il mare
Per far sapere a tutti
Che il figlio tuo morì.
Ma chi crudel commise,questo sì grande eccesso,o dolce Madre io stesso,uccisi il tuo Gesù.
Per qua il Figlio cadde,insanguinato e spento,per me che vidi a stento,lo spirito esalar.
Per soddisfare o Vergine,al mio diletto infranto,deh! prestami quel pianto,che tu versasti un dì.
Placati, dunque, io t’offro,Eterno, Divin Padre,le pene della Madre,e il sangue di Gesù!

I PIEDI BEATIPiangéte sorèlle, piangéte la mòrte,
lla mòrte crudele, ch’ ha fatto Ggesù,
con dando dolóre con dando soffrire,
la langia forènde, che Ccristo ferì.
I pièdi bbeati del nòstro Signóre
jje l’hanno inghiodati con dando doló,
con dando dolóre, con dando soffrire,
la langia forènde, che Ccristo ferì.
Gginòcchi bbeati del nòstro Signóre
jje ll’ ha’ ngavargati con dando doló,
con dando dolóre, con dando soffrire,
la langia forènde che Ccristo ferì.
E ‘l còrpo bbeato del nòstro Signóre
jje l’hanno frustato con dando doló,
con dando dolore, con dando soffrire,
la langia forènde, che Ccristo ferì.
E ‘l pètto bbeato del nòstro Signóre,
jje l’hanno forato con dando doló,
con dando dolóre, con dando soffrire,
la langia forènde, che Ccristo ferì.
La tèsta bbeata de nòstro Signóre,
jje l’hanno spinata con dando doló,
con dando dolóre, con dando soffrire,
la langia forènde, che Ccristo ferì.
Piangéte sorèlle, piangéte la mòrte,
lla mòrte crudèle ch’ ha fatto Ggesù.
Piangéte piangéte, piangéte sorèlle,
piangéte la mòrte, ch’ ha fatto Ggesù.

I CANTI DI QUESTUA: IL CANTAMAGGIOCANTAMAGGIO“L’ usanza, ancora oggi viva in varie regioni (comprese quelle limitrofe della Toscana e dell’Umbria), un tempo doveva essere diffusa anche nella Tuscia. Una testimonianza risalente al secolo XV ci è fornita dalla lettera che il Poliziano in viaggio verso Roma indirizza a Lorenzo il Magnifico in data 2 maggio 1488. […] nel Viterbese il canto è rimasto in auge fino alla fine del secolo scorso soltanto a Orte e dintorni, con vari tentativi di rivitalizzazione, reiterati fino a tempi recenti.”
Nell’articolo Cimarra fa riferimento al Cineclub di Orte e al video “Canti popolari ortani” girato alla fine degli anni “70 da cineamatori ortani.
Nella ricerca da me condotta, è stato possibile rilevarne un’altra versione trascritta di seguito.
CANTAMAGGIOBenedisco la vostra venuta
nòva vi porto ch’è venuto maggio. (2 volte)
Si ppe’ sòrte non lo credi a mméne
‘ffaccete di fòri e lo vedrai da téne. (2 volte)
Si ppe’ sòrte non lo credi certo
‘ffaccete di fòri e lo vedrai ggiù l’orto. (2 volte)
Maggio si ni va ppe’ ‘sti stradèlli
l’ha ricoperto di fioretti belli. (2 volte)
E Maggio si ne va ppe’ li stradèlli
tutto coperto di fioretti belli. (2 volte)
E Maggio si ne viene ripe ripe
co’ ccanestrino a ccojje le moriche. (2 volte)
E Maggio si ne viene còste còste
benedicendo de ‘ste giovanotte. (2 volte)
Ffaccete a la finestra si ce sei
dammene ‘n goccio d’acqua se cce l’hai. (2 volte)
Dammene ‘n goccio d’acqua si ce l’hai
si nun me lo vòi dà patrona sei. (2 volte)
Ffaccete a la finestra ricciolona
de’ tuoi capelli ne vorrei ‘na rama. (2 volte)
De’ tuoi capelli ne vorrei ‘na rama
li metterò pe’ ggiunta a la catena. (2 volte)

VENGO DA LUNGO VIAGGIO
Maggio di questua
Orte
Testo registrato su declamazione dell’informatore, Palombo Tarquini (1922-2019), in località Le Caldare, fraz. di Orte, il 18 luglio 1981. L’ultima strofa è stata declamata sottovoce: “…queste èrono cose che le facevamo noi. Capito? Ce se mettevono ma sennò non c’è”.
Metrica: strofe di apertura costituita da ottonario e un endecasillabo; strofette di due versi endecasillabi, di cui alcuni ipermetri, con rime e assonanze baciate; cadenza ritmica prevalente sulla seconda, sesta e ottava sillaba dei versi endecasillabi.
Vengo da lungo vîaggio
nòva ve porto ch’è venuto maggio.
Ll’è venuto maggio e primavera
ogni arbero fiorisce e ssi prepara.
Ogn’àrbero fiorisce e ssi prepara
ogni àrbero fiorisce e ffa ‘r zuo frutto.
Maggio che ssi ni va ppe’ lli stradèlli
l’è ricoperto de ros’ e dde fiore.
Maggio che sse ne va ppe’ lle stradini
l’è ricoperto de perpetuini.
Le bbenedico queste vedovèlle
de llà dda maggio so’ rrose ingannate.
Li bbenedico questi cavallari
de llà dda maggio càmbieno i campani.
Li bbenedico questi bbiforchetti
de llà dda maggio càmbieno ll’attrezzi.
Li bbenedico questi pecorari
de llà dda maggio càmbieno i callari.
Maggio che sse ni va llà li piani piani
le rivedendo la bbiada li grani.
Maggio che sse ne va le ripe ripe
col canestrello a ccojje’ le moriche.
Maggio che se ne va le fratte fratte
con canestrèllo a ccojje’ le morasche.
Maggio che se ne va ll’asciutto asciutto
Affàccete, padrona, col presciutto.
Semo ‘rivate su la pietra nòva
Affaccete, padrona, e ddacce ll’ova.
Affàccete, padrona de conchiglia,
se nun ci-ha’ ‘l prosciutto dàcce la figlia.

Tappa 3: I’ ccinema, i’ggiardinetti e Andònio Deci
Cinema / Giardinetti

IL CINEMAVisitando il centro storico di Orte (VT), di fronte al parcheggio coperto in via Piè di Marmo 159, potrete vedere una lapide ricordo che è posta sulla casa, dove il 14 marzo 1867, nacque Filoteo Alberini, morì a Roma nel 1937, non tutti sanno che Filoteo Alberini pioniere del cinema italiano, costruì e collaudò il Kinetografo Alberini, che fu la prima macchina da presa a proiezione italiana brevettata nel novembre del 1895. In seguito fondò con un suo amico ortano, Dante Santoni, il primo stabilimento italiano di produzione cinematografica, Alberini & Santoni. Nel 1937 produssero il primo film storico italiano, “La presa di Roma”. Nella ricorrenza dei 150 anni della sua nascita il comune di Orte ha fatto realizzare dall’artista Roberto Ioppolo una statua che è ora posizionata nel piazzale dove erano i giardini pubblici.
Il cinema è dedicato a Filoteo Alberini.
n° 6 Aneddoto sul cinema e TullioDurante la proiezione di un film svedese (intorno agli anni ’70 ebbe molto successo) dal titolo Elga, veniva mostrato sullo schermo tutto il doloroso momento del parto in cui la donna mette al mondo la sua creatura, iniziando dall’istante in cui appare la parte superiore della testa del neonato.
Una ragazza, rimase talmente impressionata da perdere i sensi.
In una stanza attigua alla cabina di proiezione, l’aiuto operatore aveva una bottiglia di grappa, la quale fu usata per rianimare la ragazza.
Mentre le si davano dei piccoli schiaffi, le facevano ingoiare un po’ di grappa; ad un certo punto, la maschera del cinema disse:
“E che ti credevi che i figli li portavano le cicogne? Pòra stupida eh!”

Tullio Fabrizi (Orte, 1904 -1976)

Via del Plebiscito. “I giardinetti”: Sor Cappanna all’opera.

GIARDINETTII giardini pubblici chiamati “giardinetti” venivano curati da un giardiniere e erbo-scultore di nome Luigi Gioacchini (Orte, 1891 – 1969), soprannominato “Sór Cappanna”.
All’ingresso c’era un cancello che la sera veniva chiuso e riaperto la mattina dal giardiniere, sulle due colonne d’ingresso erano poste due piccole statue di galli e sotto ciascuna di esse figurava una scritta beneaugurante. L’una diceva: “Io canto per il buon giorno del mattino”, l’altra: “Io canto per chi visita il giardino”. Furono rimosse intorno agli anni ’60 del secolo scorso.
n° 7 I’ zzór Cappanna‘Na vòrda a’ zzór Cappanna ch’èra ‘m bravo ggiardignère, jje vòllero dà ‘m prèmmio, in quando facéa co’ amóre e cco’ ppassióne i’ggiardinétti.
I’ ggiórno de la premiazzióne, quanno jje déono i la medajja cóme prèmmio, Ggioanni de Mullio, jje dicétte de dì quarcòsa pe’ i’rriconoscimento che cc’éa aùto. Èsso guardanno la medajja dicétte: “Grazzie, grazzie pe’ la bbèlla medajja, è ppròpio bbèlla, bbellissima, anzi déo da dì mediòcre, grazzie.”
Una volta al signor Capanna che era un bravo giardiniere, gli vollero dare un premio, in quanto coltivava con amore e passione i giardinetti.
Il giorno della premiazione, gli davano la medaglia come premio, Giovanni di Amulio, gli disse di dire qualcosa per il riconoscimento che aveva avuto. Lui guardando la medaglia disse: “Grazie, grazie per la bella medaglia, è proprio bella, bellissima, anzi devo dire mediocre, grazie.”

Giardini pubblici

Per gentile concessione di Franco Scipioni

ANTONIO DECIAntonio Deci letterato ortano (Orte 1560 – Roma 1597), nacque da una famiglia affermata, compose l’Acripanda, una tragedia in versi la quale ebbe molto successo.
Fu tra gli amici prediletti di Torquato Tasso, il suo ritratto appare sul monumento funebre nella chiesa romana di sant’Onofrio.
La commedia di Antonio Deci risulta presente nella biblioteca privata di Leopardi a Recanati.
Scrive don Delfo Gioacchini:
“Antonio Deci da Orte e il canto “A Silvia”
di Delfo Gioacchini
Il verso leopardiano “da chiuso morbo combattuta e vinta” (a Silvia) ha, forse, la sua radice nel verso 689 dell’atto I della tragedia “Acripanda”, del poeta Antonio Deci da Orte, vissuto nell’ultimo trentennio del secolo XVI.
Per rappresentare in determinate circostanze, l’incertezza dell’animo umano, in questo caso della nutrice, il Deci si serve dell’immagine della pianta, esposta a “doppi venti”:
“C’hor quinci è mossa dal furor di Noto,
or quindi il fiato d’aquilon l’assale,
sicchè, or da questo or da quel lato piega;
(Ahi!) talor sanora, miserella anch’io
da doppie voglie combattuta e spinta”.
Il passo del Deci richiama il leopardiano canto “A Silvia” almeno in tre punti: negli avverbi quinci e quindi riprodotti dal Leopardi nel verso 25 nell’aggettivo miserella, a cui corrisponde il tenerella del verso 42; e infine, così evidente nel ritmo e nella costruzione, nel verso intero “da doppie voglie combattuta e spinta”.
Non v’ha dubbio che nel verso leopardiano ha un significato ben altrimenti tragico e profondo, con quell’immagine del morbo chiusa pronto ad attendere un agguato terribile, proprio perché volto a combattere e a vincere, una povera, ignara, “tenerella” fanciulla.
Il Leopardi aveva altra statura, e stabilire un rapporto tra i due autori potrebbe sembrare un confronto ardito. Ma la congettura che quel verso abbia la sua origine dal passo del Deci non ci sembra del tutto infondata.
Sappiamo che dopo la cosiddetta “Conversione Letteraria” il Leopardi si dedicò allo studio “matto e disperatissimo” degli autori del ‘500, del ‘300 e del ‘600, raccolti nella biblioteca paterna, e sappiamo quanto fosse pronto ad assimilare e ad annotare quel che colpisce la sua immaginazione.
Il fatto che un importante periodo della sua vita di politico e magistrato, il Deci lo abbia trascorso nelle Marche, e precisamente a Metelica, a Ripastrasone, a Fabriano e nei “castelli intorno”, lascia ragionevolmente supporre, che egli fosse conosciuto da quelle parti anche come poeta, oltre che come uomo di legge, e che, quindi, la pubblicazione della sua tragedia, che pur a quel tempo aveva levato un certo rumore, non passasse inosservata. Infatti una copia, precisamente la IV edizione del 1617, risulta presente nella biblioteca della casa Leopardi.
Non sembra improbabile, quindi, che sia stata attentamente letta dall’adolescente Giacomo sì quale piacque, in quella sua prima età, la poesia tragica (Il Pompeo in Egitto, La Virtù indiana).
È una supposizione, senza dubbio. Ma è certo che la lettura dei quattro versi del Deci susciti l’impressione di qualcosa di già udito e richiama alla mente i versi del canto “A Silvia”.
Copia della rivista con l’articolo di don Delfo Gioacchini

Tappa 4: I’ mmunicipio bbettole e fraschette

Mmunicipio: aneddoti sulla pretura
Bbettole e fraschette: aneddoti, poesie, proverbi e stornelli sul vino.

Tappa 5: Su ppe’ ppiazza

La leggenda di Bertrada;
la pietra dello scandalo;
la tommola (un aneddoto), un accenno alle catene di piazza;
palazzo dell’orlòggio: la bandiera; le scale de sanda Maria: poesia; la fontana di piazza, aneddoti

Tappa 6: Lo spiazzo Tròjo e andre piazzette

Lo spiazzo Tròjo e via Teverina:
Stornelli sui litigi, stornelli a dispetto, blasoni e Ellerata;
le piazzette: i’ zzòrdi e la tirchiaggine, tiritere e poesia.

Tappa 7: I'vvìgolo Baciafemmine e andri vigoli

Vigolo baciafemmine: i’ ttradimenti poesie e stornelli;
Andri vigoli: vita quotidiana, stornelli a dispetto vicoli, antroponimi;
La Marca: le maledizioni.

Tappa 8: La Rocca, Mastro Titta, L’ arco de’ Vvascellaro, Candi Popolari

La Rocca: Mastro Titta, credenze popolari.
Arco de’ VVascellaro: li spropositi de Chirichello, le credenze popolari, i canti religiosi popolari la Passione, san Giuseppe vecchiarello; canti processionali: Miserere, Stabat Mater; Canti popolari dei mestieri: fantesca, callararo; canto narrativo popolare, canti narrativi e scherzosi, stornello alla sor Capanna, canto narrativo di fiera: canto cumulativo: Me scappa fòri la mosca da’ mmoscaro.

Tappa 9: L’ ospidale

Ospitale: Poesia e aneddoti ospedalieri;
Le frangiòttole (18 Favole ortane)

Tappa 10: Poggio casa de Ggiuda

Poggio Casa de Ggiuda: blasoni popolari, stornelli d’amore;
Piazza Pietralata: un vecchio studio dentistico aneddoti e poesia.

Tappa 11: Ssa' Mmiaggio

Ssa’ Mmiaggio: Preghiere popolari scomparse: diasille, preghiere per i santi, preghiere alla Vergine, a Gesù Bambino, preghiere della sera.